ITALIANO Simulazione Invalsi
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TEMPO: 00:00
Testo non continuo
Testo narrativo
Testo espositivo
Completamento lessicale
Grammatica
Risultati
I conflitti dimenticati

Chiunque potrebbe fare un semplice test: prendere carta e penna e scrivere, in tre minuti, una dopo l’altra le guerre in corso nel mondo. O meglio, quelle che ricorda. La lista, probabilmente, non arriverebbe a 10. Forse i più informati ne metterebbero in fila 15. Più in fondo abbiamo segnato nel nostro foglietto un certo conflitto, meno l’abbiamo presente o lo conosciamo. Per non parlare di quelli che non ci sono nemmeno venuti in mente. Eppure sono molte di più, le guerre: si combatte in 35 Paesi. Solo in Africa il “censimento” annovera 15 Stati devastati dalla violenza e dalle bombe. Un’altra decina di realtà del pianeta vivono tensioni, conflitti a “bassa tensione”, instabilità politica e militare. E le missioni ONU di pacificazione sono ben 15, in tutto il mondo. Ma quanti italiani sono consapevoli di tutto ciò? Per rispondere a questa domanda è stato chiesto per la quarta volta, alla SWG di Trieste, di realizzare un sondaggio sui “conflitti dimenticati”. I precedenti sono stati realizzati nel 2001, nel 2004 e nel 2008. Che cosa emerge dal sondaggio? Innanzitutto che i conflitti sono ancora molto “dimenticati”: una guerra come quella dell’Afghanistan, di cui i mass media hanno parlato parecchio, viene ricordata da meno della metà del campione (il 46 per cento), quella libica dal 26, e il conflitto israelo-palestinese scende a 11 intervistati su cento. I conflitti africani, poi, stanno sempre a fondo scala: la più che ventennale guerra somala viene segnalata dal 5 per cento del campione, quella del Darfur (in Sudan occidentale) dall’8, quella congolese addirittura dall’1 per cento degli intervistati. Ma anche guerre asiatiche come quella della Cecenia o del Pakistan non superano il 2 per cento. E le pure recentissime “Primavere arabe” dell’Egitto (4 per cento) e della Tunisia (1 per cento) sono già finite nel dimenticatoio. La vera novità del sondaggio 2012 è comunque il dato generale della crescita di consapevolezza: “La rivelazione”, spiega Walter Nanni, il sociologo di Caritas che ha curato con la SWG l’elaborazione dell’indagine, “coglie alcuni segnali di trasformazione nella coscienza collettiva nazionale: si passa da un’attenzione genericamente umanitaria per le guerre lontane, a un interesse più personale e consapevole verso situazioni di conflitto che sentiamo più vicine e che condizionano la nostra quotidianità”. Un sondaggio, quindi, con luci e ombre. Ad esempio, se da un lato gli italiani ripongono una fiducia crescente nelle Organizzazioni non governative (il 37 per cento) e nell’ONU (26 per cento), dall’altro il ruolo del Governo italiano viene percepito come irrilevante (solo il 4 per cento lo segnala). “Per noi”, dice Paolo Beccegato, direttore dell’area internazionale di Caritas italiana, “è importante l’aspetto culturale ed educativo di una solidarietà intelligente e documentata. Il sondaggio, da questo punto di vista, è una cartina di tornasole rilevante. Riguardando i dati, sono particolarmente colpito dal quesito che ha chiesto al campione di italiani se considera la guerra evitabile o inevitabile: solo il 19 per cento lo considera un ‘male necessario’ perché legato alla natura dell’uomo. Il 79 per cento ritiene che il ricorso alla guerra sarà superabile grazie all’evoluzione culturale dell’umanità.” “Credo che per questo sia importante continuare a parlare dei conflitti dimenticati”, sottolinea Beccegato. “Per continuare a far crescere questa sensibilità. Dobbiamo operare perché questo numero continui ad aumentare. Magari fino al 100 per cento. Per Caritas è fondamentale la costruzione della pace e della riconciliazione dal basso. Ma è un lavoro che si basa sulla premessa della evitabilità della guerra.”

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(da L. Scalettari, in “Famiglia Cristiana”, n. 29, 2012)

L’incredibile storia di Natale

Al dodicesimo rintocco della venerabile pendola nell’antico palazzo dei marchesi Silvacroce di Firenze, la grande sala dalle pareti pannellate in noce scuro parve animarsi. Il buio di un istante prima fu rotto da una debole luminescenza bianco verdastra e le immagini dei ritratti degli antenati tremolarono nelle cornici poi lentamente, assunsero un aspetto tridimensionale finché dalle tele si staccarono nebulosi fantasmi che andarono man mano assumendo forma corporea. Nel giro di cinque minuti attorno al grande tavolo di massiccia rovere si erano raccolti i venticinque antenati degli odierni marchesi. A prendere la parola fu il vecchio patriarca in costume da lanzichenecco1. “Eccoci qui di nuofo!” ruggì con voce leonina e inconfondibile accento teutonico2 il capostipite dell’antica famiglia. “Un altro Natale... un’ altra riunione.”
“Come vuole l’ antico incantesimo della maga Marlina da noi sfamata e rivestita,” disse in tono pio un venerabile personaggio che abbigliato alla moda tradizionale dei nobili del Seicento.
“Orsù non perdiamo tempo in chiacchiere inutili,” commentò accigliato Dagoberto Silvacroce, penultimo dell’accolita3 in ordine di tempo. “Ricordate che abbiamo solo un’ ora per discutere degli affari di famiglia. E poi ritorneremo a essere immagini di quadri inanimati. Qual è l’argomento di quest’anno?” I venticinque Silvacroce si erano ormai accomodati attorno al tavolo e a parlare fu l’elegante e impomatato zerbinotto Giberto, ucciso in una casa di dubbia reputazione nel lontano 1715. “L’argomento è l’indegno comportamento di uno della nostra illustre schiatta4,” disse il zerbinotto5 con voce stridula. “Pensate, Giberto, il figlio minore dell’attuale marchese di Silvacroce, ha rifiutato di lavorare nella banca di famiglia e ha iniziato un’attività manuale!”
Un “Oh!” di sdegnata sorpresa si levò dal consesso. Ci furono fronti corrugate e sguardi corrucciati.
“È inconcepibile!” commentò il cardinale Pompilio Silvacroce facendo tremolare il triplo mento. “Uno della nostra famiglia che esercita un’attività manuale!”
“E la esercita a domicilio di villani i cui antenati strisciavano ai nostri piedi per un tozzo di pane,” aggiunse il sussiegoso Giberto. “È un’indegnità!”
“Un oltraggio al buon nome della famiglia!” tuonò il severo giudice Aleardo che sotto il regno di Francesco I d’Austria6 si era distinto nelle repressioni antipopolari.
“E quale sarebbe questa indegna attività manuale?” chiese il cardinale Silvacroce. I presenti si guardarono in viso imbarazzati, poi a rompere il silenzio fu il colonnello Odelio Silvacroce, morto in guerra nel 1944 durante la campagna di Russia. “Ecco, il giovane Giberto Silvacroce fa l’idraulico!”
“E porta anche il mio nome, lo screanzato!” esclamò inorridito lo zerbinotto. “Ma cos’è un idraulico?”
“È un’ attività nuova,” spiegò il colonnello Silvacroce. “Tanto per semplificare, consiste nel creare o riparare impianti di acqua corrente nelle abitazioni. Per voi può essere un po’ difficile da capire, dopo tutto l’acqua corrente ai vostri tempi non esisteva. Come non esistevano le sale da bagno.” Il vecchio patriarca dalla testa leonina inorridì e il suo accento teutonico si fece più marcato. “Acqua corrente nelle abitazioni? Che diafoleria è mai questa. E in quanto al bagno chi ne ha mai afuto bisogno?” La sua risataccia di soldataccio scandalizzò i suoi raffinati discendenti che però tacquero, intimoriti, come sempre, da quel temperamento così diverso dal loro. “Per toglierci la polvere di dosso a noi bastava un bell’acquazzone e per asciugarci un pagliaio in cui rotolarci con la servotta di qualche locanda!” Di nuovo si udì la sua risataccia e il cardinale si fece il segno della croce.
“Il punto non è questo,” disse con impazienza Dagoberto Silvacroce. “L’indegnità della cosa sta nel fatto che un Silvacroce lavori per qualcuno!”
“Decisamente indegno,” commentò Giberto, sempre più effeminato che mai. “Dobbiamo prendere qualche provvedimento”.
“Silfacroce... Silfacroce!” sbottò incollerito il lanzichenecco. “Quante folte defo dirfi che il nostro nome è Silberkreutz? Ma questo Giberto si fa pagare bene almeno?”
“Oh, per questo non ci sono dubbi...” cominciò il colonnello Odelio, ma fu interrotto dal cardinale Pompilio che guardò tutti inorridito. “Denaro! Come si può pensare al vile denaro in un frangente come questo? Io...”
“Tu stai zitto!” gli ordinò brutalmente Leotard Silberkreutz. “Cosa folete saperne foi di soldi che fe li siete trovati in saccoccia grazie al sottoscritto? Ma lo sapete le gole che ho dofuto tagliare per procurarfeli? E le ferite che mi sono procurato? E le notti passate acquattato nelle paludi in attesa che passasse qualche ricco mercante?” Gli occhi del vecchio leone risplendevano dell’antico fuoco. “No, massa imbelle, non sputateci sui soldi foi che siete stati buoni solo a spenderli!”.
“Però...” fece per cominciare Giberto, ma un’occhiataccia del vecchio lanzichenecco lo fece rabbrividire e gli fece passare la voglia di proseguire. Nessun altro osò intervenire. Allora Leotard Silberkreutz girò uno sguardo sprezzante sui suoi discendenti e pronunciò il suo verdetto. “Questo Giberto Silberkreutz mi piace. Mi pare che abbia più fegato di tutti voi, branco di parassiti. Ha quindi il mio permesso di proseguire nella sua attività.”
“Ma forse dovresti sentire l’opinione di tutti...” lo interruppe timidamente Jacopo Silvacroce, notaio del 1816.
Una sghignazzata leonina. “Io Leotard Silberkreutz sono l’opinione di tutti foi,” disse il patriarca con fare sprezzante. “E farete come ho detto.” Il cardinale Pompilio stava per replicare, ma in quel momento la pendola batté l’una e le forme dei venticinque Silberkreutz-Silvacroce divennero evanescenti mentre le loro nuvolette si sollevavano per riprendere il loro posto negli antichi quadri da dove sarebbero tornate a vivere di lì a un altr’ anno. Per qualche secondo ancora echeggiò nella sala la risata sarcastica di Leotard Silberkreutz poi nel profondo silenzio si udirono solo i rintocchi della pendola.

​​​​1 lanzichenecco: in età rinascimentale, soldato mercenario tedesco.
2 teutonico: proprio dell’antica tribù germanica dei Teutoni e, per estensione, delle popolazioni germaniche posteriori.
3 accolita: gruppo di persone.
4 schiatta: stirpe, discendenza.
5 zerbinotto: giovane eccessivamente elegante e galante.
6 Francesco I d’Austria: (1708-1765) imperatore dal 1745. Nella pace di Vienna del 1738 rinunciò alla Lorena, ottenendo in cambio il Ducato di Parma e Piacenza e il Granducato di Toscana

(da A. Bellomi, L’incredibile storia di Natale, in M.R. Paolella Grassi, Fantasmi nemici-amici, Loescher, 2007)

Due secoli su due ruote

Leonardo Da Vinci non c’entra. Per quanto suggestiva, infatti, l’ipotesi che sia stato il genio toscano a disegnare la rudimentale bicicletta ritrovata sul Foglio 33 del Codice Atlantico non è attendibile: manubrio, pedali e catena avrebbero fatto la loro comparsa solo tre secoli più tardi, in pieno spirito rivoluzionario. A idearla fu il conte francese Mède de Sivrac, intorno al 1790-1791, per le sue passeggiate nel Bois de Boulogne: pesava mezzo quintale, non aveva né i pedali né manubrio e si usava a spinta. De Sivrac chiamò questa proto-bicicletta “celerifero”, dal latino celer (veloce) e fero (io porto, trasporto), ma era poco più che un cavallo di legno con le ruote. Sempre un nobile, ma questa volta tedesco, Karl Christian Ludwing Drais, ebbe l’idea di aggiungere un sedile e, soprattutto, un manubrio che permettesse lo sterzo della ruota anteriore. Nacque così la draisina: era il 1815 e per diversi decenni avrebbe monopolizzato la scena ciclistica europea. Grazie alla draisina nacquero anche le prime competizioni, con i migliori corridori che riuscivano a coprire distanze di 10 km in poco più di mezz’ora, alla ragguardevole velocità (considerando anche le strade dell’epoca) di quasi 20 km/h. La nascita della bicicletta in senso moderno, tuttavia, si ha con l’introduzione della trasmissione, cioè dei pedali. A dir la verità, però, il modello messo a punto dallo scozzese Kirkpatrick McMillan non prevedeva né pedali né catena: per trasmettere la forza muscolare alla ruota posteriore utilizzava un complicato sistema di bielle e stantuffi, che non ebbe seguito. Per mezzo secolo, infatti, la trazione si spostò sulla ruota anteriore. È l’epopea dei velocipedi che iniziò nel 1865 in un’officina di Godot-le-Mauroy, in Francia, dove lavorava Ernest Michaux. L’intuizione di questo carrozziere (in suo onore michaudina diventò sinonimo di velocipede) fu quella di aggiungere delle pedivelle al mozzo della ruota anteriore. In questo modo a ogni giro dei pedali corrispondeva un giro della ruota. Ma, ahimè, per raggiungere velocità maggiori si scatenò una corsa ad aumentare il diametro della ruota: i ciclisti si ritrovarono a quasi 2 metri d’altezza (per salire in sella ci voleva la scaletta), con notevoli rischi. Su questi nuovi modelli chiamati bicicli, si sperimentarono anche rudimentali freni, poco efficienti perché ruota e ceppi erano entrambi in ferro. Vista la pericolosità del biciclo furono prodotti i primi tricicli, rivolti soprattutto alle signore. E di ruote ne aveva addirittura quattro uno dei primi tandem, apparso nel 1896. A riportare il ciclista “a terra”, intorno al 1885, fu la cosiddetta safety bike, la prima a introdurre una trasmissione indiretta tra ruota e pedali. In questo caso non serviva una ruota di grandi dimensioni perché era il rapporto di trasmissione a dare efficacia alla pedalata. Anche per la trasmissione furono sperimentati i sistemi più diversi, ma alla fine fu la catena a rivelarsi vincente, anche se continuava ad agire sulla ruota anteriore. A spostarla su quella posteriore e dare alla bicicletta (anzi, al bicicletto, come si diceva all’epoca) la fisionomia che conosciamo, con le ruote delle stesse dimensioni, fu l’ingegnere inglese Henry Lawson nel 1879. Altra innovazione importante furono le ruote pneumatiche, introdotte dalla Dunlop nel 1888. Alla fine del XIX secolo l’evoluzione della bicicletta era ormai quasi completa, anche se soluzioni alternative continuarono (e continuano ancor oggi) a essere sperimentate.

(da M. Scarabelli, in “Focus”, n. 236, giugno 2012)

I conflitti dimenticati

Chiunque potrebbe fare un semplice test: prendere carta e penna e scrivere, in tre minuti, una dopo l’altra le guerre in corso nel mondo. O meglio, quelle che ricorda. La lista, probabilmente, non arriverebbe a 10. Forse i più informati ne metterebbero in fila 15. Più in fondo abbiamo segnato nel nostro foglietto un certo conflitto, meno l’abbiamo presente o lo conosciamo. Per non parlare di quelli che non ci sono nemmeno venuti in mente. Eppure sono molte di più, le guerre: si combatte in 35 Paesi. Solo in Africa il “censimento” annovera 15 Stati devastati dalla violenza e dalle bombe. Un’altra decina di realtà del pianeta vivono tensioni, conflitti a “bassa tensione”, instabilità politica e militare. E le missioni ONU di pacificazione sono ben 15, in tutto il mondo. Ma quanti italiani sono consapevoli di tutto ciò? Per rispondere a questa domanda è stato chiesto per la quarta volta, alla SWG di Trieste, di realizzare un sondaggio sui “conflitti dimenticati”. I precedenti sono stati realizzati nel 2001, nel 2004 e nel 2008. Che cosa emerge dal sondaggio? Innanzitutto che i conflitti sono ancora molto “dimenticati”: una guerra come quella dell’Afghanistan, di cui i mass media hanno parlato parecchio, viene ricordata da meno della metà del campione (il 46 per cento), quella libica dal 26, e il conflitto israelo-palestinese scende a 11 intervistati su cento. I conflitti africani, poi, stanno sempre a fondo scala: la più che ventennale guerra somala viene segnalata dal 5 per cento del campione, quella del Darfur (in Sudan occidentale) dall’8, quella congolese addirittura dall’1 per cento degli intervistati. Ma anche guerre asiatiche come quella della Cecenia o del Pakistan non superano il 2 per cento. E le pure recentissime “Primavere arabe” dell’Egitto (4 per cento) e della Tunisia (1 per cento) sono già finite nel dimenticatoio. La vera novità del sondaggio 2012 è comunque il dato generale della crescita di consapevolezza: “La rivelazione”, spiega Walter Nanni, il sociologo di Caritas che ha curato con la SWG l’elaborazione dell’indagine, “coglie alcuni segnali di trasformazione nella coscienza collettiva nazionale: si passa da un’attenzione genericamente umanitaria per le guerre lontane, a un interesse più personale e consapevole verso situazioni di conflitto che sentiamo più vicine e che condizionano la nostra quotidianità”. Un sondaggio, quindi, con luci e ombre. Ad esempio, se da un lato gli italiani ripongono una fiducia crescente nelle Organizzazioni non governative (il 37 per cento) e nell’ONU (26 per cento), dall’altro il ruolo del Governo italiano viene percepito come irrilevante (solo il 4 per cento lo segnala). “Per noi”, dice Paolo Beccegato, direttore dell’area internazionale di Caritas italiana, “è importante l’aspetto culturale ed educativo di una solidarietà intelligente e documentata. Il sondaggio, da questo punto di vista, è una cartina di tornasole rilevante. Riguardando i dati, sono particolarmente colpito dal quesito che ha chiesto al campione di italiani se considera la guerra evitabile o inevitabile: solo il 19 per cento lo considera un ‘male necessario’ perché legato alla natura dell’uomo. Il 79 per cento ritiene che il ricorso alla guerra sarà superabile grazie all’evoluzione culturale dell’umanità.” “Credo che per questo sia importante continuare a parlare dei conflitti dimenticati”, sottolinea Beccegato. “Per continuare a far crescere questa sensibilità. Dobbiamo operare perché questo numero continui ad aumentare. Magari fino al 100 per cento. Per Caritas è fondamentale la costruzione della pace e della riconciliazione dal basso. Ma è un lavoro che si basa sulla premessa della evitabilità della guerra.”

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(da L. Scalettari, in “Famiglia Cristiana”, n. 29, 2012)

L’incredibile storia di Natale

Al dodicesimo rintocco della venerabile pendola nell’antico palazzo dei marchesi Silvacroce di Firenze, la grande sala dalle pareti pannellate in noce scuro parve animarsi. Il buio di un istante prima fu rotto da una debole luminescenza bianco verdastra e le immagini dei ritratti degli antenati tremolarono nelle cornici poi lentamente, assunsero un aspetto tridimensionale finché dalle tele si staccarono nebulosi fantasmi che andarono man mano assumendo forma corporea. Nel giro di cinque minuti attorno al grande tavolo di massiccia rovere si erano raccolti i venticinque antenati degli odierni marchesi. A prendere la parola fu il vecchio patriarca in costume da lanzichenecco1. “Eccoci qui di nuofo!” ruggì con voce leonina e inconfondibile accento teutonico2 il capostipite dell’antica famiglia. “Un altro Natale... un’ altra riunione.”
“Come vuole l’ antico incantesimo della maga Marlina da noi sfamata e rivestita,” disse in tono pio un venerabile personaggio che abbigliato alla moda tradizionale dei nobili del Seicento.
“Orsù non perdiamo tempo in chiacchiere inutili,” commentò accigliato Dagoberto Silvacroce, penultimo dell’accolita3 in ordine di tempo. “Ricordate che abbiamo solo un’ ora per discutere degli affari di famiglia. E poi ritorneremo a essere immagini di quadri inanimati. Qual è l’argomento di quest’anno?” I venticinque Silvacroce si erano ormai accomodati attorno al tavolo e a parlare fu l’elegante e impomatato zerbinotto Giberto, ucciso in una casa di dubbia reputazione nel lontano 1715. “L’argomento è l’indegno comportamento di uno della nostra illustre schiatta4,” disse il zerbinotto5 con voce stridula. “Pensate, Giberto, il figlio minore dell’attuale marchese di Silvacroce, ha rifiutato di lavorare nella banca di famiglia e ha iniziato un’attività manuale!”
Un “Oh!” di sdegnata sorpresa si levò dal consesso. Ci furono fronti corrugate e sguardi corrucciati.
“È inconcepibile!” commentò il cardinale Pompilio Silvacroce facendo tremolare il triplo mento. “Uno della nostra famiglia che esercita un’attività manuale!”
“E la esercita a domicilio di villani i cui antenati strisciavano ai nostri piedi per un tozzo di pane,” aggiunse il sussiegoso Giberto. “È un’indegnità!”
“Un oltraggio al buon nome della famiglia!” tuonò il severo giudice Aleardo che sotto il regno di Francesco I d’Austria6 si era distinto nelle repressioni antipopolari.
“E quale sarebbe questa indegna attività manuale?” chiese il cardinale Silvacroce. I presenti si guardarono in viso imbarazzati, poi a rompere il silenzio fu il colonnello Odelio Silvacroce, morto in guerra nel 1944 durante la campagna di Russia. “Ecco, il giovane Giberto Silvacroce fa l’idraulico!”
“E porta anche il mio nome, lo screanzato!” esclamò inorridito lo zerbinotto. “Ma cos’è un idraulico?”
“È un’ attività nuova,” spiegò il colonnello Silvacroce. “Tanto per semplificare, consiste nel creare o riparare impianti di acqua corrente nelle abitazioni. Per voi può essere un po’ difficile da capire, dopo tutto l’acqua corrente ai vostri tempi non esisteva. Come non esistevano le sale da bagno.” Il vecchio patriarca dalla testa leonina inorridì e il suo accento teutonico si fece più marcato. “Acqua corrente nelle abitazioni? Che diafoleria è mai questa. E in quanto al bagno chi ne ha mai afuto bisogno?” La sua risataccia di soldataccio scandalizzò i suoi raffinati discendenti che però tacquero, intimoriti, come sempre, da quel temperamento così diverso dal loro. “Per toglierci la polvere di dosso a noi bastava un bell’acquazzone e per asciugarci un pagliaio in cui rotolarci con la servotta di qualche locanda!” Di nuovo si udì la sua risataccia e il cardinale si fece il segno della croce.
“Il punto non è questo,” disse con impazienza Dagoberto Silvacroce. “L’indegnità della cosa sta nel fatto che un Silvacroce lavori per qualcuno!”
“Decisamente indegno,” commentò Giberto, sempre più effeminato che mai. “Dobbiamo prendere qualche provvedimento”.
“Silfacroce... Silfacroce!” sbottò incollerito il lanzichenecco. “Quante folte defo dirfi che il nostro nome è Silberkreutz? Ma questo Giberto si fa pagare bene almeno?”
“Oh, per questo non ci sono dubbi...” cominciò il colonnello Odelio, ma fu interrotto dal cardinale Pompilio che guardò tutti inorridito. “Denaro! Come si può pensare al vile denaro in un frangente come questo? Io...”
“Tu stai zitto!” gli ordinò brutalmente Leotard Silberkreutz. “Cosa folete saperne foi di soldi che fe li siete trovati in saccoccia grazie al sottoscritto? Ma lo sapete le gole che ho dofuto tagliare per procurarfeli? E le ferite che mi sono procurato? E le notti passate acquattato nelle paludi in attesa che passasse qualche ricco mercante?” Gli occhi del vecchio leone risplendevano dell’antico fuoco. “No, massa imbelle, non sputateci sui soldi foi che siete stati buoni solo a spenderli!”.
“Però...” fece per cominciare Giberto, ma un’occhiataccia del vecchio lanzichenecco lo fece rabbrividire e gli fece passare la voglia di proseguire. Nessun altro osò intervenire. Allora Leotard Silberkreutz girò uno sguardo sprezzante sui suoi discendenti e pronunciò il suo verdetto. “Questo Giberto Silberkreutz mi piace. Mi pare che abbia più fegato di tutti voi, branco di parassiti. Ha quindi il mio permesso di proseguire nella sua attività.”
“Ma forse dovresti sentire l’opinione di tutti...” lo interruppe timidamente Jacopo Silvacroce, notaio del 1816.
Una sghignazzata leonina. “Io Leotard Silberkreutz sono l’opinione di tutti foi,” disse il patriarca con fare sprezzante. “E farete come ho detto.” Il cardinale Pompilio stava per replicare, ma in quel momento la pendola batté l’una e le forme dei venticinque Silberkreutz-Silvacroce divennero evanescenti mentre le loro nuvolette si sollevavano per riprendere il loro posto negli antichi quadri da dove sarebbero tornate a vivere di lì a un altr’ anno. Per qualche secondo ancora echeggiò nella sala la risata sarcastica di Leotard Silberkreutz poi nel profondo silenzio si udirono solo i rintocchi della pendola.

​​​​1 lanzichenecco: in età rinascimentale, soldato mercenario tedesco.
2 teutonico: proprio dell’antica tribù germanica dei Teutoni e, per estensione, delle popolazioni germaniche posteriori.
3 accolita: gruppo di persone.
4 schiatta: stirpe, discendenza.
5 zerbinotto: giovane eccessivamente elegante e galante.
6 Francesco I d’Austria: (1708-1765) imperatore dal 1745. Nella pace di Vienna del 1738 rinunciò alla Lorena, ottenendo in cambio il Ducato di Parma e Piacenza e il Granducato di Toscana

(da A. Bellomi, L’incredibile storia di Natale, in M.R. Paolella Grassi, Fantasmi nemici-amici, Loescher, 2007)

Due secoli su due ruote

Leonardo Da Vinci non c’entra. Per quanto suggestiva, infatti, l’ipotesi che sia stato il genio toscano a disegnare la rudimentale bicicletta ritrovata sul Foglio 33 del Codice Atlantico non è attendibile: manubrio, pedali e catena avrebbero fatto la loro comparsa solo tre secoli più tardi, in pieno spirito rivoluzionario. A idearla fu il conte francese Mède de Sivrac, intorno al 1790-1791, per le sue passeggiate nel Bois de Boulogne: pesava mezzo quintale, non aveva né i pedali né manubrio e si usava a spinta. De Sivrac chiamò questa proto-bicicletta “celerifero”, dal latino celer (veloce) e fero (io porto, trasporto), ma era poco più che un cavallo di legno con le ruote. Sempre un nobile, ma questa volta tedesco, Karl Christian Ludwing Drais, ebbe l’idea di aggiungere un sedile e, soprattutto, un manubrio che permettesse lo sterzo della ruota anteriore. Nacque così la draisina: era il 1815 e per diversi decenni avrebbe monopolizzato la scena ciclistica europea. Grazie alla draisina nacquero anche le prime competizioni, con i migliori corridori che riuscivano a coprire distanze di 10 km in poco più di mezz’ora, alla ragguardevole velocità (considerando anche le strade dell’epoca) di quasi 20 km/h. La nascita della bicicletta in senso moderno, tuttavia, si ha con l’introduzione della trasmissione, cioè dei pedali. A dir la verità, però, il modello messo a punto dallo scozzese Kirkpatrick McMillan non prevedeva né pedali né catena: per trasmettere la forza muscolare alla ruota posteriore utilizzava un complicato sistema di bielle e stantuffi, che non ebbe seguito. Per mezzo secolo, infatti, la trazione si spostò sulla ruota anteriore. È l’epopea dei velocipedi che iniziò nel 1865 in un’officina di Godot-le-Mauroy, in Francia, dove lavorava Ernest Michaux. L’intuizione di questo carrozziere (in suo onore michaudina diventò sinonimo di velocipede) fu quella di aggiungere delle pedivelle al mozzo della ruota anteriore. In questo modo a ogni giro dei pedali corrispondeva un giro della ruota. Ma, ahimè, per raggiungere velocità maggiori si scatenò una corsa ad aumentare il diametro della ruota: i ciclisti si ritrovarono a quasi 2 metri d’altezza (per salire in sella ci voleva la scaletta), con notevoli rischi. Su questi nuovi modelli chiamati bicicli, si sperimentarono anche rudimentali freni, poco efficienti perché ruota e ceppi erano entrambi in ferro. Vista la pericolosità del biciclo furono prodotti i primi tricicli, rivolti soprattutto alle signore. E di ruote ne aveva addirittura quattro uno dei primi tandem, apparso nel 1896. A riportare il ciclista “a terra”, intorno al 1885, fu la cosiddetta safety bike, la prima a introdurre una trasmissione indiretta tra ruota e pedali. In questo caso non serviva una ruota di grandi dimensioni perché era il rapporto di trasmissione a dare efficacia alla pedalata. Anche per la trasmissione furono sperimentati i sistemi più diversi, ma alla fine fu la catena a rivelarsi vincente, anche se continuava ad agire sulla ruota anteriore. A spostarla su quella posteriore e dare alla bicicletta (anzi, al bicicletto, come si diceva all’epoca) la fisionomia che conosciamo, con le ruote delle stesse dimensioni, fu l’ingegnere inglese Henry Lawson nel 1879. Altra innovazione importante furono le ruote pneumatiche, introdotte dalla Dunlop nel 1888. Alla fine del XIX secolo l’evoluzione della bicicletta era ormai quasi completa, anche se soluzioni alternative continuarono (e continuano ancor oggi) a essere sperimentate.

(da M. Scarabelli, in “Focus”, n. 236, giugno 2012)

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